31 Dicembre 2014 - di Alessia Dulbecco
Proprio ieri ho scritto due righe a commento del bel documentario “Ci chiamano diversi”. Il suo punto di forza, a mio modo di vedere, risiede nelle interviste e nei commenti che l’autore ha registrato – girando l’Italia intera – ascoltando le voci di chi ogni giorno lavora/sostiene le associazioni LGBTI.
Una delle intervistate sosteneva che nel corso degli anni si è verificato un cambiamento: se prima il problema erano i “gay”, proprio in quanto persone, ora il problema si è spostato sui diritti che questi richiedono. Ovviamente la questione è semplicemente ribaltata: negare i diritti significa negare l’esistenza della persona.
Questa mattina leggo la notizia di una giovane di 17 anni che si è suicidata, in Ohio, perché i genitori non hanno mai accettato la sua decisione di adeguare la propria condizione biologica a quella psicologica e al proprio orientamento sessuale. La ragazza prima di suicidarsi ha scritto una lettera nella quale racconta le vessazioni subite dagli psicologi – probabili sostenitori della teoria riabilitativa – dai quali i genitori la costringevano ad andare e l’isolamento nel quale mamma e papà l’hanno costretta:
Mi hanno obbligata a lasciare la scuola, mi hanno tolto il computer e il telefono, mi hanno proibito di comunicare attraverso i social, mi hanno isolata completamente dagli amici. È stato il periodo più depresso della mia vita, è stato un miracolo che non mi sia suicidata. Sono rimasta completamente sola per 5 mesi. Senza amici, senza aiuto, senza amore. Soltanto la delusione dei miei genitori e la crudeltà della solitudine”.
Leggendo le parole di Leelah mi tornano alla mente quelle di una attivista intervistata nel video di Vincenzo Monaco: siamo tolleranti con i gay a patto che siano figli degli altri. Il fenomeno a livello sociale inizia a essere compreso, ma quando capita all’interno delle famiglie sono ancora troppi i tabù che devono essere abbattuti, a cominciare con le aspettative deluse e alla genitorialità che – in qualche modo – si sente ferita dall’apprendere una notizia simile.
C’è ancora molto da fare e per questo auguro un buon 2015 a chi lavora per sensibilizzare giovani e meno giovani a questi argomenti, a chi sostiene con azioni dirette e concrete chi non può affermare liberamente i propri diritti a chi combatte per cambiare le cose.


Serve tanto equilibrato buon senso, e ne vedo sempre meno.
Mi unisco ai tuoi auguri e, a te, un sereno Anno Nuovo 🙂
Primula
Auguri a te, Primula!
Alessia