4 Novembre 2015 - di Alessia Dulbecco
Olga scrive sotto pseudonimo. Racconta di sé, della sua vita professionale – ma anche di quella privata, poichè l’essere umano non vive per compartimenti stagni e quindi l’una si riflette sull’altra – e delle difficoltà che incontra sul luogo di lavoro. Queste ‘difficoltà’: hanno un nome ben specifico: si tratta di molestie. Quelle sottili, che passano per richieste travestite da inviti, per baci sulla guancia non voluti, per battuttine sulla sfera sessuale assolutamente inappropriate. In tutto il volume non ci sono riferimenti ai luoghi in cui si svolge la vicenda: tutto viene contestualizzato in maniera indefinita. Si parla così di colloqui che avvengono in grandi città, di un primo trasferimento in una località nella pianura padana, di un soggiorno di prova in una cittadina balneare di provincia.
Olga è una giornalista trentenne: anni di gavetta alle spalle, master e corsi di formazione hanno lastricato il suo cammino di precaria che le ha permesso – dopo anni di lavori nel giornalismo (pagati quanto un tirocinio) di approdare nel mondo di una piccola emittente televisiva. Sempre precaria, ma almeno con uno stipendio mensile da milleduecento-euro-al-mese. Un miraggio, per la nostra generazione. Quando l’emittente comincia a navigare in cattive acque le viene data notizia del suo licenziamento. La precarietà modifica il cervello delle persone e Olga non si scoraggia, conosce bene la sensazione di non avere nulla di certo nella vita e di non poter spingere la sua fantasia a progettare la propria esistenza al di là della fatidica soglia dei sei mesi. Sa anche, purtroppo, che non è possibile muoversi alla ricerca di un lavoro senza le conoscenze, gli agganci. Un amico le fa avere un colloquio con un potente direttore che sta per aprire un nuovo giornale, con sedi sparse in tutta Italia. Le viene proposto un periodo di prova di due settimane: Olga è felice, sembra che il direttore riconosca il suo valore e la incoraggi ad essere decisa per potersi far strada. Presto capirà la verità: le settimane di prova diventeranno mesi e quella che inizia sembra essere una trattativa dove la posta in gioco è proprio Olga: è il gioco perverso del “io ti do… se tu mi dai”. Olga lo capisce subito e ne ha conferma confrontandosi con altre colleghe, ben consapevoli del fatto che la possibilità di avere un contratto, di fare carriera o di non essere cacciate dal mondo lavorativo (per le colleghe di già un certa età) passa inevitabilmente per il letto del direttore, attraverso il soddisfacimento delle sue richieste.
È un bene che nel volume non ci siano riferimenti specifici: la storia di Olga diventa così un manifesto collettivo. Contro la precarietà delle esistenze che si traduce in una mortificazione dei rapporti sociali (“non c’è solidarietà tra precari”) e personali che diventa quasi una battaglia tra i sessi (Ettore, il suo compagno, ha una carriera avviata, lavora per una radio nazionale, e non deve scontrarsi con la rabbia, la vergogna e la totale assenza di riconoscimento professionale).
La storia di Olga è la storia di tutte noi, giovani precarie, che sul posto di lavoro non hanno la stessa dignità che spetta alla controparte maschile.
La storia di Olga è la storia di tutte le donne, costrette ad essere ‘sempre sul pezzo’ a dimostrare quanto valgono, obbligate a toccare con mano la propria vulnerabilità. Essere donna, in ambito lavorativo, è un problema: perché si guadagna meno, perché è richiesto il doppio dello sforzo per dimostrare le proprie capacità, perché si è sempre alla mercé di qualcuno che si sente in diritto di abusare di quel corpo che non possiede lo stesso valore di quello maschile: siamo (ancora) oggetti più che soggetti.
Il libro di Olga è un punto nello stomaco, 130 pagine difficili da leggere… Perché ogni molestia subita, ogni angheria da parte del caporedattore, del collega-nemico, del sindacato che cerca invano di coinvolgere per richiedere protezione e sostegno, le subiamo anche noi. La sua denuncia è l’unico modo per aprire gli occhi su una realtà – ben chiara ai colleghi e alle colleghe, ma anche dello stesso Ettore o alla mamma che confessa di aver subito un trattamento simile molti anni prima, quando lavorava in un grande studio come segretaria – che è purtroppo conosciuta da tutt*, ma taciuta. Il volume e il progetto on line che si è sviluppato in contemporanea – Il porco al lavoro – danno la possibilità, alle donne ma non solo, di compiere una piccola rivoluzione: smetterla di accettare le molestie come parte integrante della vita lavorativa e cominciare, invece, a denunciare apertamente.
Per fare in modo che l’atteggiamento nei confronti delle donne cambi bisogna prima essere in grado di riconoscere ciò che ci accade, uscire dalla logica del “forse siamo noi che dobbiamo adattarci al mondo e smetterla di volerlo cambiare” (come dice una collega alla giovane giornalista) e cominciare – davvero – a reagire. Olga ha compiuto una prova di coraggio, ci ha tracciato la strada. Il resto, ora, tocca a noi.
Felicissima di trovare sempre più recensioni di questo libro!