L’intervento pedagogico nei processi di riconoscimento e fuoriuscita dalla violenza di genere

16 Novembre 2015 - di Alessia Dulbecco

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Chi mi conosce e segue il blog sa che uno degli argomenti sui quali mi piace di più scrivere, formarmi e affrontare è quello relativo agli studi di genere e al concetto di violenza domestica. 

Mi sono avvicinata a questi temi un po’ per caso (anche se anni e anni di corsi formativi mi hanno insegnato che, in realtà, non è mail il caso a determinare l’incontro col tema della violenza, così come non è un caso se si sceglie di diventare professionisti nell’ambito della ‘relazione di aiuto’) ormai nel lontano 2009, quando decisi di svolgere il tirocinio universitario proprio presso uno dei Centri Antiviolenza più famosi e ben funzionanti di Genova. L’anno successivo un tirocinio presso il neonato centro Antiviolenza di Imperia e poi la collaborazione, continuata fino al 2014, per la gestione degli interventi educativi sia con le vittime sia nei contesti scolastici. 

Per lavorare come operatrice è necessario formarsi costantemente, leggere molti volumi sul tema e, a poco a poco, costruirsi un modo specifico di operare all’interno del problema. Il mio modo specifico è quello pedagogico

Ieri, come chi segue la mia pagina Fb saprà, ho partecipato al primo modulo formativo (di un percorso che durerà sei mesi) per acquisire competenze specifiche e diventare operatrice all’interno dei centri che si occupano dei Maltrattanti. È sempre la violenza di genere al centro dell’intervento ma, ovviamente, cambia la prospettiva dalla quale la si osserva. Le due giornate di studio mi hanno fatto riflettere attorno a due questioni che sono quelle che mi hanno fatto nascere l’esigenza, oggi, di dedicare questo articolo proprio ad analizzare i motivi per cui educazione e contrasto alla violenza sono due argomenti fortemente interconnessi.

Anzitutto mi preme partire da una duplice considerazione maturata proprio ascoltando i miei docenti e i tanti interventi fatti dai collegh* corsisti.

– di fronte a questi argomenti si assiste spesso ad una riflessione esclusivamente di tipo psicologico: bisogna aiutare le vittime ad elaborare il trauma (compito fondamentale per uno psicologo), bisogna sostenere imaltrattanti nel processo di allontanamento dalla violenza che spesso deriva da un’incapacità di gestire le emozioni o da scompensi di natura esclusivamente psicologica.

– spesso non si hanno chiare le tante forme di violenza che una donna può subire dal partner (molti uomini ignorano che un rapporto non voluto, all’interno di una relazione di coppia, sia comunque un reato di violenza sessuale (un po’ come a dire: “se stiamo assieme ci sono specifici ‘doveri coniugali’ a cui non ci si può sottrarre)

– siamo circondati dalla violenza: essa è, prima di tutto, un fatto culturale.

Proprio quest’ultima riflessione mi porta a rimarcare la necessità di introdurre – ogni qualvoltasi affrontano questi temi – uno sguardo pedagogico. 

Se la violenza è un fatto culturale significa che tutt*
 veniamo – più o men inconsapevolmente – educati ad essa. 

Ci educano a reprimere le emozioni (perché, socialmente, non è possibile esprimere determinati sentimenti in pubblico a seconda del sesso di appartenenza) o al contrario a dimostrarle, ma sempre e solo nei modi codificati e approvati dal tessuto sociale. 

Ci educano a pensare alla donna come ad un oggetto, anziché un soggetto. Ciò è palese soprattutto rispetto al corpo: viene frammentato per reificarlo (basti guardare all’uso nel panorama pubblicitario). La donna è concepita come ‘elemento di propietà’ del maschile che l’accompagna e ha diritto di disporne Come meglio crede (ricordiamo che fino al 75 il nostro diritto di famiglia prevedeva la presenza di un capofamiglia che poteva disporre di moglie e figli e adottare comportamenti punitivi per la loro di-educazione).

Ci educano a pensare che un uomo sia ‘uomo’ solo se adotta particolari forme espressive, linguistiche, comunicative; se sta stare tra i suoi pari solo in un certo modo; se annulla la componente affettiva o se la sa veicolare in un modo che non sia ‘da donna’ o, peggio da omosessuale.

Ci educano a pensare che una donna sia tale solo se si completa all’interno di una relazione, con una gravidanza. Ci educano a sacrificarci (in termini di lavoro o vita professionale) in nome della famiglia, ma ciò non è richiesto alla controparte.

Se l’ambiente che ci caratterizza è questo, allora, possiamo comprendere perché la violenza di genere sia un fenomeno sociale di così ampia rilevanza. E si capisce perché non si può prescindere da un intervento pedagogico per contrastare il fenomeno. Ovviamente, è fondamentale che ogni intervento sia interdisciplinare ma è fondamentale prevedere anche questo tipo di intervento.

È attraverso il colloquio pedagogico che si può aiutare la persona ad individuare questi meccanismi sociali, ad acquisire consapevolezza rispetto alle modalità violente a cui è stat* educato. Ciò può fornire anche un valido strumento per aiutarl* nel l’educazione dei figl*, in caso li abbia.

Il colloquio pedagogico provvede a chiarire la situazione, ad aiutare l’utente nel processo di nominare le cose, e successivamente è ciò che gli permetterà di essere ri-educato a nuove forme relazionali.

Proprio per sua natura un colloquio pedagogico può essere applicato all’interno di un cav, di un centro per uomini mltrattanti ma anche all’interno delle scuole o delle altre agenzie di socializzazione, per aiutare genitori, insegnant*, assistenti sociali nel processo di riconoscimento della pervasività della violenza e di sensibilizzazione.

Personalmente ho realizzato interventi pedagogici in molti contesti (scuole, progetti formativi, cav) e ciò che mi ha permesso di riconoscerne la validità è stata la reazione delle persone con le quali mi rapportavo: stupore, riflessioni e cambiamento degli agiti violenti.

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